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  • Inserita il 24-03-2015
  • Autore/fonte Studio Legale Vinelli

Tecnica chirurgica desueta: se è scelta dal paziente esonera il medico

Il paziente ha scelto il tipo di intervento chirurgico cui sottoporsi, è stato informato delle possibili complicanze dell’intervento e non si è attenuto alle prescrizioni post-operatorie: non sussiste la responsabilità penale del medico per la morte del paziente in seguito alle complicanze insorte dopo l’intervento.

Una paziente veniva sottoposta ad intervento chirurgico di bypass digiuno-ileale per il trattamento dell’obesità di cui soffriva. In seguito a coma epatico dovuto a cirrosi insorta come complicanza di tale intervento, la paziente decedeva. Il chirurgo veniva imputato di omicidio colposo.

Il Tribunale affermava la responsabilità del chirurgo in ordine al reato ascrittogli, condannandolo altresì al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili. La Corte d’appello, però, riformava la pronunzia, assolvendo l’imputato con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Le parti civili ricorrevano allora per cassazione.

La Suprema Corte rigetta i ricorsi in quanto infondati, così confermando pertanto la pronuncia assolutoria d’appello.

Due sono i profili di responsabilità identificati in capo al chirurgo (affermati in primo grado e, invece, esclusi, in sede di appello):

  1. la scelta del tipo di intervento chirurgico, ritenuta erronea;

  2. il comportamento tenuto dall’imputato nella fase post-operatoria.

Con riferimento ad entrambi, i Giudici di legittimità affermano che la pronuncia d’appello appare immune da censure, non riscontrandosi vizi di carattere logico e giuridico.

La decisione di appello poggia sui seguenti rilievi:

  • è stata la paziente a scegliere sia il tipo di intervento che il chirurgo (ciò, in particolare, su consiglio di un sacerdote della congregazione dei testimoni di Geova che offriva aiuto materiale e conforto ai fratelli di fede nei rapporti con la clinica ed i suoi medici);

  • la donna ha sottoscritto un completo modulo di consenso informato, venendo a conoscenza delle possibili complicanze dell’intervento.

  • sul tipo di intervento chirurgico, poi, la condotta del terapeuta viene ritenuta immune da censure in quanto:

a) il bypass in questione è incluso tra le prestazioni rimborsate dal servizio sanitario nazionale (ciò implica – precisa la Cassazione – un apprezzamento da parte di un organismo istituzionale di cui non può essere trascurata la rilevanza nel considerare come non estraneo al circuito scientifico l’approccio chirurgico in questione);
b) dalle contrapposte pubblicazioni scientifiche, prodotte da tutte le parti, emerge che l’intervento in questione non era affatto desueto, quantomeno in ambito nazionale (quanto, in particolare, all’abbandono della procedura in area anglosassone, ciò è dovuto ai costi del lungo follow-up che non sono accettati dalle assicurazioni private).

Pertanto, conclude sul punto la Cassazione, appare immune da censure la conclusione dei giudici d’appello secondo cui nessun rimprovero per imperizia può essere mosso all’imputato nella scelta terapeutica adottata (in cui peraltro egli era specializzato e riconosciuto come stimato professionista).

La Corte d’appello ha ritenuto insussistente la responsabilità del chirurgo:

  • non risultando sufficientemente provato che la paziente si sia scrupolosamente attenuta alle prescrizioni dietetiche e farmacologiche fornitele (e soprattutto che la stessa si sia sottoposta alle visite secondo la cadenza temporale prescritta dal protocollo di dimissioni):

  • non potendosi ritenere che la posizione di garanzia del chirurgo “potesse estendersi fino al punto di dover ripetere insistentemente nei confronti di una paziente adulta, che ormai era stata dimessa dalla clinica, le prescrizioni e le raccomandazioni che erano state meticolosamente fornite”.

Ciò, tra l’altro, sulla base dei seguenti rilievi:

  • la complicanza intervenuta era prevista come una delle possibili conseguenze dell’intervento;

  • la paziente, all’atto della dimissione, fu avvertita dei rischi e ricevette precise indicazioni sul percorso terapeutico;

  • avuto l’imputato notizia dal sacerdote dell’esito degli esami dai quali emergeva un’alterazione importante dei valori, aveva caldamente invitato lo stesso (come confermato in sede di testimonianza dal sacerdote) ad incoraggiare la paziente a farsi visitare;

  • non risultando registrate dalla clinica le visite prescritte dai protocolli, la circostanza sostenuta dall’imputato secondo cui la donna non si sarebbe mai sottoposta a visita fa venir meno la sua posizione di garanzia.

Ciò considerato, i Giudici di legittimità osservano che la pronuncia d’appello anche con riferimento alla fase post-operatoria non mostra profili di illogicità.

Correttamente, pertanto, conclude sul punto la Cassazione, non si configurano profili di colpa neppure con riguardo alla fase post operatoria in quanto, seppure nella fase postoperatoria si è senza dubbio riscontrata una grave carenza che ha avuto come esito un tardivo trattamento delle patologie collaterali insorte (che hanno determinato l’esito letale), neppure per tale parte della vicenda può ravvisarsi, alla luce delle argomentazioni fornite dal giudice d’appello, una condotta concretamente rimproverabile a carico del sanitario, avendo la donna in sostanza trascurato quasi totalmente le raccomandazioni che le erano state fatte (precisa al riguardo la cassazione che essa: ha inviato al sanitario due soli referti afferenti all’analisi dei liquidi biologici; non si è presentata per i controlli previsti, o almeno non lo ha fatto dopo il primo controllo per la rimozione dei punti (…) neppure ha risposto alle sollecitazioni pervenutele dal terapeuta tramite il religioso”).

Manca, pertanto, la possibilità di ravvisare condotte colpose in capo all’imputato.